Emma Fenu
Le dee del miele
Estratti
Introduzione
Sono nata sul confine fra due mondi, lingua di terra fra un castello che volgeva al declino, lasciando dietro di sé il pudore della memoria, e un torrente che si insinuava, ospite inatteso, fra orde di occhi increduli.
Mi appartengono le parole magiche, sussurrate, in dialetto arcaico, sulla mia fronte febbricitante e i versi di “Come mai”, cantati, con il cuore palpitante, sognando un primo amore; i canti in latino, imparati a memoria per la Prima Comunione, e le voci delle scrittrici della fine del Novecento; il frusciare degli scialli neri, che avvolgono corpi di donne che profumano di incenso, mandorle e miele, e la poca stoffa e la molta storia di una minigonna.
Il mio è un tempo ossimorico in cui si incrociano passato e presente.
La mia infanzia è trascorsa fra racconti, poesie e silenzi assordanti, in cui poche parole erano già troppe e alcune, in realtà, non andavano neppure dette, ma solo capite; fra l’eco, mai udito davvero, dei pianti cadenzati delle prefiche, attorno al corpo di uno sconosciuto; fra i segreti, tramandati da madre in figlia, e i cartoni animati giapponesi che hanno rallegrato i bambini degli anni ‘80.
Io sono l’anello di una catena, quello che ha rischiato di spezzarsi, quello che non ha ceduto. Generata per ripercorrere strade già note, ma cresciuta per attraversare i confini di una patria matrigna, prima di far nuovamente rientro, se pur nel ricordo, laddove soltanto ha senso la parola “casa”.
Il romanzo che leggerete è ispirato alle donne della mia famiglia: alcuni fatti sono realmente accaduti, molti altri, invece, sono frutto di immaginazione. Non importa distinguerli.
Nella memoria ogni storia diventa leggenda.
Seguite la spirale del racconto che dalla madre terra vi porta sempre più all’interno, fino al pozzo di Alice: una spirale che è simbolo di quanto leggerete.
Emma Fenu
Incipit
Capitolo Primo – Anime oneste
«Nell'orto rinasceva l'erba, e i fiori dei mandorli, sfogliati dal vento, coprivano i viali con una specie di nevischio profumato. Una distesa di cavoli fiori copriva quasi tutto l'orto, ma lungo i muri, sotto i mandorli che rinverdivano, crescevano già le altre piantagioni, e la rugiada brillava come polvere di perle sui piccoli steli verdi delle cipolle.»
Grazia Deledda, Anime Oneste, 1895
Santa Ausanna[1], è la mamma di Sant’Anna, Sant’Anna è la mamma di nostra Signora…
Profumo di pomodori e salsedine, linguaggio di una terra talvolta generosa, dea dal grembo fecondo e gravido di sole, che sfama i suoi figli.
Seduta su una sedia impagliata, sotto il porticato di canne antistante alla casupola, Caterina si accarezzava la rotondità del ventre, agitando, con l’altra mano, un ventaglio di broccato logoro, mentre disegnava nel nulla piccoli cerchi invisibili con la punta dell’alluce. Aveva diciassette anni, un viso tondo dalle gote infantili e due seni gonfi da donna con una bambina ancora da svezzare e un primogenito di cui ricordare solo il primo, flebile, vagito.
Ma questo, che ora scalciava deciso, sarebbe vissuto. Sarebbe nato e cresciuto forte, bello e onesto. E maschio: lei lo sapeva.
Il cognato, poco più che suo coetaneo, dato disperso al termine della Guerra, le era, infatti, apparso, nella penombra di una notte di luna, ai piedi del letto matrimoniale. Era proprio lui: lo stesso sguardo di velluto nero, la stessa pelle di cuoio, gli stessi riccioli scomposti per una corsa a piedi nudi nell’orto, scampando a una sassaiola fra bande rivali.
«Ora sono morto, Caterina» le disse, muovendo lentamente le labbra carnose, «ora puoi chiamare il bambino che aspetti Antonio, come me, e lui, diversamente dall’altro, non spirerà fra le tue braccia divenendo nutrimento della sulvula[2].»
Solo mesi dopo si ebbe notizia ufficiale dell’in-fausto evento, quando la ragazza già ne era certa, grazie alla propria visione.
Il suocero e il marito, infatti, dopo aver affrontato un rocambolesco viaggio a bordo di un aereo militare, appresero comunicazioni inconfutabili: fu un compaesano partigiano a sparargli alle spalle e a vederne il corpo, con i muscoli e i nervi ancora in tensione, cadere nella fossa comune, foglia su altre foglie, ai piedi dell’albero della divina giustizia, dove perfino le madri si stringono sotto diverse bandiere insanguinate.
Santa Ausanna, è la mamma di Sant’Anna, Sant’Anna è la mamma di nostra Signora…
Il sole cedeva al tramonto tingendo di rosso i contorni delle piante. Rosso sangue. Suo marito non era ancora rientrato a casa dopo il faticoso lavoro e, nell’aria densa di echi misteriosi, Caterina ripeteva la formula arcana, cercando un segno che potesse fugare la propria paura.
Santa Ausanna, è la mamma di Sant’Anna, Sant’Anna è la mamma di nostra Signora…
Ed eccole, le figlie di Nosoccunudda [3], camminare a passo veloce, come rane saltellanti, per raggiungere la dimora in cui erano nate e non volevano morire, portando in equilibrio, sulle rispettive teste more, due cesti contenenti i panni lavati alla fontana comune.
«Mi chiede in sposa, Nuccia, me lo ha detto ieri, quando gli ho portato l’acqua, solo a lui, passando come un’ape regina fra gli altri braccianti assetati anche di corpi femminili.»
Ora Caterina sapeva. Le Madri eterne, se pur donne come lei, le avevano concesso una ennesima carezza: secondo una tradizione tramandata per secoli, se si restava ad ascoltare, dopo aver formulato il sacro rituale, si sarebbe avuta riposta al proprio quesito direttamente dalle parole, inconsapevoli, del primo passante.
Suo marito, dunque, sarebbe riapparso incolume, nonostante le minacce di morte ricevute, nei giorni precedenti, dal proprietario del podere confinante.
Anche stasera avrebbero cenato occhi negli occhi, sorbendo un minestrone sempre diverso, che seguiva il ciclo delle stagioni e degli umori, e sarebbero, infine, sprofondati nel sonno tenendosi per mano, dopo essersi amati teneramente.
«Eccomi, ho fatto tardi oggi» disse Pietro, varcando con incedere fiero l’ingresso privo di ostacoli: la porta, per far circolare aria e mitigare la calura, era già aperta.
«So tutto» replicò Caterina, e versò nel piatto due mestolate odorose di fatica e speranza.
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Durante il freddo inverno, per evitare lo stupro della pioggia, del gelo e della grandine, l’ortolano premuroso preservava le neonate piantine di pomodori in un harem di tepore: dopo aver divelto le resistenti pale del fico d’india, creava piccole tettoie, sostenute dalle canne, per riparare ogni germoglio.
In questo modo, la Madre Terra non avrebbe abortito il frutto del seme e, in estate, sarebbe stata pronta a offrirsi alle mani di decine di ostetrici che ne portavano alla luce i frutti succosi e maturi.
Era il giorno di San Giovanni, in cui Caterina si dedicava, come da tradizione, alla delicata impresa della smelatura.
L’inizio dell’allevamento era avvenuto l’anno prima, quando uno sciame si era in insediato in un bugno villico, ben riparato dal vento e coccolato dal sole, grazie all’intervento di Raimondo, l’apicoltore più capace della zona. Così, a onor del vero, raccontava Pietro, ma la moglie asseriva che le api si erano presentate a lei già pronte al proprio lavoro, spontaneamente prendendo possesso della casa a loro destinata.
La giovane, dopo aver tracciato un segno di croce nell’aria densa di ronzii sordi e ininterrotti, aveva estratto la parte superiore del cilindro di sughero, ossia del bugno, e posizionato sopra esso uno vuoto contenente, all’interno, solo due asticelle di legno. La nuova dimora era appositamente cosparsa di menta, mirto e limone, affinché le api non potessero resistere al richiamo odoroso.
Rimosso il tappo inferiore del bugno, nel quale la famiglia aveva costruito il proprio castello, Caterina aveva riempito una buca con braci, ferula, funghi e sterco di bovino, tutti secchi. Il fumo freddo, infatti, avrebbe allontanato gli insetti per condurli, in transumanza, presso la nuova casa sovrastante, con un mazzo di fiori posto sull’ingresso come segno d’invito.
Appena liberati i favi, in tempi lenti scanditi dal ritmo eterno della natura, quelli contenenti la covata sarebbero stati resi alle api; gli altri, invece, sarebbero stati spostati dentro ampi contenitori in terracotta, gli stessi che si prestavano a molteplici usi, fra cui l’impastatura del pane e dei dolci.
Successivamente, il miele veniva spremuto dalle mani delle donne, che pigiavano con forza sulle celle dalla forma perfetta, come per stillare latte da mammelle di mucche sacre. Infine, il liquido aureo era travasato in brocche dalla bocca capiente, idonee per filtrare prima con crivelli di vimini e poi con teli di lino.
La faticosa mansione, che coinvolgeva tutte le donne della famiglia e degli orti vicini, costringeva a stare chinate, gravando con il proprio peso i calcagni per ore, fino a sentire ogni giuntura dolere per la posizione innaturale. Caterina, lasciando le compagne, si dirigeva, di tanto in tanto, lungo le fila dei campi, per dissetare i solerti lavoratori e deliziarli con pezzi di cera vergine, ancora piena di miele.
I tanto attesi festeggiamenti del Battista, celebri in tutta l’Isola, infatti, avrebbero coinvolto i ragazzotti solo la sera, al termine del quotidiano lavoro, anche esso gravoso.
Chini sotto il sole bruciante, i braccianti, accovacciati come creature acefale, raccoglievano pomodori e contavano le ore, nel loro succedersi sul cielo, affinché la fatica fosse mitigata dalla brezza dell’attesa di uno sguardo femminile sui loro incarnati bruniti. Eppure, i gesti rapidi tradivano la bramosia di esibirsi nel salto del fuoco del falò che li avrebbe uniti in eterno, per santo vincolo.
I lavoratori più anziani, dai movimenti altrettanto sicuri, ma solenni, ricordavano gli anni trascorsi e rammentavano compari, confondendo, nella canicola, nostalgia e fierezza.
Anche Caterina era stata una fanciulla. Usava il tempo passato, raccontando di sé con i capelli spartiti in due trecce, anche se avrebbe compiuto soli diciotto anni in autunno, nel tempo delle caldarroste: ma era già madre di tre figli, anche se uno morto e uno ancora da partorire. Una donna, ormai.
Era nata e cresciuta nel cuore del paese, non fra gli orti cosparsi di dimore costruite senza ordine come dadi lanciati dalla mano di un Dio bambino, ma nel reticolo fitto di vicoli e case, come nell’intreccio di un paniere di giunco, dove ciascuno è “noi”, prima di essere “io”.
Il pomeriggio di San Giovanni di quattro anni prima, come tutte le ragazze nubili, aveva rispettato la tradizione, cedendo al sonno pomeridiano successivo a un lauto pranzo, senza dissetarsi. In questo modo, colui il quale, nel sogno, le avrebbe offerto da bere sarebbe divenuto, in breve tempo, suo marito. Fu Pietro a porgerle dell’acqua, nel mondo onirico in cui tutto era già scritto.
La vita, all’epoca, era semplice, ma impregnata di magia, se pur senza sfavillii fasulli, se non quelli universali delle stelle ricamate sul manto ebano di Iside che sovrastava le notti estive. E, perfino la stessa sera, Caterina aveva ottenuto un altro divino segno premonitore: aveva scorto il suo amato appoggiato alla casa antistante, sul muro di pietra ancora arroventato dal sole già sommerso nelle acque, con un ginocchio piegato e un pezzo di tabacco stretto fra i denti immacolati.
Non solo Sant’Anna dispensava segreti profetici, anche San Giovanni non era sordo alle preghiere, la ragazza lo sapeva.
Da quella notte profumata di solstizio, aveva preso avvio la loro relazione amorosa, da fidanzati. Secondo l’uso consolidato, al termine del lavoro, ciascun innamorato si recava sotto la finestra della sua promessa, trovandola affacciata, accanto alle altre, con i capelli ben raccolti e la bocca umida e vermiglia, opportunamente sfregata con stoffa scarlatta, prima dell’atteso appuntamento.
A volte le guance si arrossavano, il sabato sera, senza l’utilizzo di “trucchi” femminei, se un poeta e un fisarmonicista dedicavano versi, su pagamento del fidanzato, alla bella di turno che a giorni avrebbe convolato a nozze. Le altre osservano la scena con occhi umidi, mordendosi il labbro inferiore per assaggiare l’ansia dell’attesa.
Non erano permessi, dalla morale comune, incontri solitari fra i futuri sposi; eppure, dopo aver ceduto alla dolce passione, architettando incontri fortuiti, alcune non vedevano il proprio mensile sanguinare e, prima che il ventre tendesse troppo la stoffa degli abiti, venivano condotte all’altare alle prime luci dell’alba, nel silenzio e nel disonore, senza neppure i fiori che allietano i funerali.
Ma non era stato il caso di Caterina e Pietro, che conoscevano l’uno dell’altro solo la voce, l’anima e la pelle di pochi centimetri di mani, prima che il sacramento li rendesse una carne sola. Dopo l’ufficializzazione del fidanzamento, infatti, Pietro si recava presso la casa di lei: l’unico istante in cui potevano sfiorarsi e scambiarsi una parola, con la bramosia di un’ape in volo verso una rosa, era nel momento in cui, sotto gli occhi indiscreti di una decina di parenti, che fiammeggiavano nell’oscurità come gatti, la fanciulla accompagnava l’innamorato verso l’uscio.
Avvinta dall’abbraccio della memoria, Caterina mescolava con vigore il minestrone che bolliva sul treppiede. Il marito era stato chiaro: non potevano permettersi di abbondare sulla porzione del pasto offerto ai braccianti con cui egli condivideva, se pur proprietario dell’orto, le medesime piaghe e la medesima minaccia della miseria, aleatoria conseguenza di un vile capriccio del raccolto.
Tuttavia, la giovane madre non negava mai un piatto in più ai suoi figli di ogni età. «Tzia, ce le mette a cuocere le lumache trovate nei rovi, addormentate ai piedi delle pale di fico d’India? Così mangiamo anche carne, oggi!» disse, porgendole il bottino e un sorriso, un ragazzino di tredici anni. Caterina pensò, con orgoglio, che avrebbe saputo cucinare una pietanza saporita perfino con una pietra.
continua...
[1] Ausanna sta per Susanna
[2] La sulvula era uno spirito maligno che succhiava il sangue dei neonati, facendoli indebolire e dimagrire fino alla morte.
[3] Letteralmente “Nonsonulla”. Secondo l’usanza locale le famiglie erano appellate con soprannomi da generazioni, piuttosto che con i cognomi.
foto di Francesca Guerrini