ESTRATTI
Capitolo Primo
Chi siamo?
«Non credo che tu sia la persona in grado di guarirmi dalle ferite interiori; ma forse, in questa fase della mia vita, non ho tanto bisogno di un medico quanto di una persona che abbia una ferita simile alla mia».
David Grossman
Tutto ha avuto inizio con una storia,la mia.
Maglia in cotone rosa, pagina bianca di word davanti agli occhi e mille parole in circolo che, dalla mente e dal cuore, si dirigevano, accalcandosi nello spazio angusto dei capillari, fino ai polpastrelli, vibranti e pulsanti nella danza sulla tastiera.
Tac tac tac tac. Punto. Pausa di silenzio.
E, dopo una manciata di istanti, ancora la melodia dei tasti premuti troppo in fretta, con passione veemente, come quando si accarezza il volto di un innamorato da cui si è stati separati per lungo, troppo tempo.
Ricordo distintamente di quando mio marito, agli esordi della nostra relazione, trascorse, per esigenze professionali, due mesi e mezzo in Giordania, lontano da me. Ci rincontrammo in una stazione del sud Sardegna, illuminati dagli ultimi raggi del sole che cedeva al tramonto, e le nostre mani, avvolte attorno al viso dell’altro, parlavano, nel silenzio delle bocche, dell’euforia di un nuovo inizio.
Conoscevo, dunque, quella sensazione: esprimere con le dita il desiderio di fermare il tempo, nell’ardore di sfiorare l’eternità.
Inizialmente mi proponevo di scrivere una sincera e non vittimistica testimonianza inerente all’endometriosi, malattia che ha segnato il destino di mia madre e il mio, entrambe unite da amore, DNA e diagnosi, e sulle conseguenze che essa comporta sulla fertilità e sulla vita quotidiana.
In realtà, cercavo “Emma”, la volevo tenere stretta, al caldo, in sintonia con i battiti del mio cuore, ma ho allargato le braccia, nuda e disarmata, e ho trovato centocinquanta donne.
Mentre stilavo la storia, infatti, i miei sensi si acuivano, tutti. Vivevo in un mondo in cui colori, sapori, suoni, aromi e consistenze tattili erano all'ennesima potenza.
Mi pareva di essere cambiata, stentavo a riconoscermi. Invece stavo liberando dalla prigione della coscienza, immortalandolo nero su bianco, chi, realmente, ero e sono.
Ma, soprattutto, non ero più in grado di leggere solo libri, ma anche animi.
«È bello leggere le persone. Quelli tutti uguali cercano di sembrare diversi, i diversi tentano di sembrare uguali. I liberi se ne fregano. Ogni ruga una riga, ogni smorfia un epigramma, ogni sbadiglio un aforisma scontato. Le persone sono una biblioteca pubblica. E non lo sanno».
Andrea G. Pinketts
Mi rendevo conto, progressivamente, che le dinamiche della mia vita non solo mostravano punti di contatto notevoli con quelle di altre, apparentemente accomunate a me solo dal verdetto di un ginecologo, ma che ero legata, tramite fili invisibili, a donne, anch’esse figlie e madri come me, nella medesima, e peculiare, accezione.
In principio ho voluto esaminare la questione da un punto di vista prettamente scientifico, documentandomi sull’esistenza, e interrogandomi sulla conseguente validità, di studi che si propongono di dimostrare, tramite un campione statisticamente accettabile, una connessione fra l’infertilità, dovuta a svariati fattori, e un vissuto familiare complesso, se non addirittura traumatico.
Mi sono imbattuta in svariate teorie, alcune delle quali riconducono la causa di molteplici malattie, fra cui quelle oggetto del mio interesse, non solo all’infanzia, ma perfino alla storia degli avi, la quale, ovviamente, precede la nostra nascita.
Tuttavia, in questo libro, non disserterò su questioni cliniche, scientifiche o pseudo tali. Ho voluto adottare un approccio narrativo, lasciando al lettore la scelta di compiere o meno successivi approfondimenti.
Quanto anima e ha animato il mio scrivere è, pertanto, il tentativo caparbio di dare voce ad una minoranza, che non accetta più di essere negata e relegata, e di gettare un fascio di luce su una porzione della realtà, vera e innegabile, che si presta a molteplici interpretazioni di carattere sociale e antropologico, ma che, soprattutto, coinvolge a livello puramente emotivo.
«Siamo legati da infiniti fili sottili, facili da recidere a uno a uno, ma che essendo intrecciati tra loro formano corde indistruttibili».
Isabel Allende
Un tardo pomeriggio di fine estate, ho compiuto un atto di coraggio: mi sono tuffata da una scogliera a picco per essere seguita in acque pure a me ignote.
Ho formulato un invito, servendomi di alcuni forum, a quante, dietro alle sillabe e ai numeri di un nickname, mostravano ciò che nessun esame diagnostico, sebbene invasivo, può rivelare.
Ho chiesto loro di raccontarsi a me, ad una sconosciuta, promettendo di leggere ogni parola. Anche quella non espressa palesemente.
Sono stata sommersa, nel giro di pochi mesi, da decine e decine di stralci di vita intrisi di coraggio, scritti non da vittime, ma da eroine sopravvissute; non da atleti seduti in panchina, ma da chi ha alzato la coppa della vittoria, madido di sudore e incurante dei rivoli di sangue, verso il cielo.
Vi aspettano, dunque, brevi storie, da leggere tutte d’un fiato.
Non si tratta di semplici boccate d’ossigeno, che rigenerano corpo e spirito dopo aver percorso, canticchiando, un sentiero di montagna. Sono, piuttosto, convulse fami d’aria, come quelle che seguono all’imposizione di una mano vigorosa, premuta su una bocca alla quale viene negato un urlo.
Tuttavia, al termine della lettura, lo spasmo dei polmoni si attenua, per scandire, con respiri regolari, il tempo che segue alla conclusione della narrazione. Ogni storia è intensa, a tratti cruda e crudele, ma contempla una resurrezione catartica, una volta spostata la pietra chiudeva il sepolcro del silenzio.
«Il primo giorno della settimana, la mattina presto, mentre era ancora buio, Maria Maddalena andò al sepolcro e vide la pietra tolta».
Giovanni, 20, 1
[...]
Capitolo Terzo
Siamo Figlie
Numero uno. La luce sugli oceani
«Faccenda davvero misteriosa la maternità».
Incinta. Subito dopo le nozze.
Non erano i tempi dei test di gravidanza eseguiti in bagno, con il cuore palpitante, e delle ecografie che svelano l’imminente evolversi della vita nelle proprie viscere.
Si attendeva il ritardo, ci si fidava delle nausee, finché i tempi erano maturi per avere la conferma, presso il medico, di quanto le anziane già da tempo asserivano profeticamente, solo scrutando gli occhi e la pelle della futura mamma.
Spesso le future mamme erano condannate a seppellire sogni e corredini in un limbo, dove non c’erano croci, né nomi, né volti definiti.
Mia nonna ebbe, dunque, un aborto, un evento che rientrava nella quotidianità di donne che concepivano a ritmo serrato e che, a prescindere dall'arrotondarsi delle proprie forme, continuavano a impastare pane, nottetempo, dure come gli idoli di pietra dell’epoca nuragica, icone dai seni gonfi come otri e dal ventre prominente.
Erano le stesse donne che, sovente, vedevano diventare freddi e immobili i figli partoriti a casa, fra urla animalesche, in una lotta titanica fra la vita e la morte.
A questi ultimi bambini, poiché venuti alla luce, spettava il paradiso, se l’ostetrica era solerte nell’amministrare il battesimo, recidendo, con il cordone ombelicale, anche il filo del destino umano, come una parca.
«“A cosa mi serve un medico adesso? Ormai ho perso il bambino. Perché sono così inadeguata?” mormorò Isabel. “Per le altre donne fare figli è facile come respirare”».
Un proverbio in lingua sarda recita, al pari di una formula magica, chi esti po tui ge abarrada, “se è per te, rimane per te”. Mia nonna, forse, soleva ripetersi questa sequenza di parole, durante il trascorrere dei mesi e degli anni, che condannavano il suo utero all’onta di restare vuoto.
Finché smise di ripeterla questa frase propiziatoria, non appena si concluse il suo ciclico sanguinare, la cui comparsa mensile acuiva il dolore per la negata condizione di madre e la cui scomparsa, oggi menopausa, allora era, crudelmente, vecchiaia.
Ma mio nonno, tuttavia, voleva un figlio, un figlio di sangue, di DNA, che gli appartenesse come un arto, come un organo, come un’appendice.
Non posso ipotizzare le modalità con cui decisero, ma decisero.
Una giovane donna accettò di essere ventre, affinché un figlio vi fosse.
Conosco il suo nome, il suo cognome e il suo paese d’origine, ma non la considero mia nonna, non l’ho mai cercata, non ho mai immaginato i lineamenti del suo volto, la luce del suo sorriso.
Tuttavia, silenziosamente ed intimamente, la ringrazio.
La ringrazio perché senza di lei io non ci sarei; perché è stata complice di una scelta che per noi oggi è orrore, ma che, allora, era l’unica possibile forma di eterologa; perché si è separata dalla bambina che ha nutrito con il suo corpo senza neppure sentirne l’odore della pelle rosea; perché si è limitata a poche visite discrete presso la casa di mia mamma, consegnandole piccoli doni e, presentandole, successivamente, le persone che erano divenute parte della sua vita, il marito e i bimbi.
Ho stretto fra le mani il suo primo regalo per la neonata, forse infilato con pudore nelle sue fasce: è una medaglietta in oro, piccolissima, con un angelo dipinto e con, sopra incisa, la scritta “proteggimi”.
Una tenerezza infinita. In quel monile, pegno di una forma di amore, ho avvertito uno struggente addio, dolce e ricolmo di speranza.
Che un angelo protegga anche te, donna senza volto.
Così, dunque, ebbe inizio la vita di mia mamma, una bambina nata in una fredda notte di gennaio, sotto la candida coltre di neve che ricopriva un paese dove si snodavano vie minute in cui si proiettavano case dai tetti spioventi.
«Fragile come un fiocco di neve, la bambina sarebbe potuta facilmente svanire nel nulla».
I criteri gerarchici furono subito ben definiti: le decisioni inerenti alla vita della bambina spettavano esclusivamente al padre.
Mia nonna era destinata ad essere relegata al ruolo subalterno di moglie non amata, di madre troppo anziana e, poco più tardi, di nobile decaduta. Trascorreva le sue giornate nella grande casa a tre piani, dedicandosi al ricamo e alle sue meravigliose rose che a maggio rendevano il giardino un Eden, muovendosi, leggera e silenziosa come una jana, in uno spazio che contemplava la sua camera da letto, non condivisa con il marito, la sala da pranzo con i mobili in legno pregiato, lucidati con l’olio profumato, e i dintorni della villa.
Una villa che era stata splendida, frutto dell’estro di un architetto pionerista, ma che, man mano, volgeva in lento declino, simile ad una bambola di porcellana finissima esposta, per incuria, alle intemperie.
Mia nonna non poteva occuparsi materialmente della bambina, non era contemplato nel codice di comportamento che si addiceva alle gentildonne e, sinceramente, non ne sarebbe stata capace, svilita e sottomessa al potere e alla vigilanza del marito, e, ovviamente, priva di latte nei seni.
«Così Isabel scivola sempre di più nel suo mondo di benevolenza divina, nel quale le preghiere vengono esaudite, nel quale i bambini arrivano per volontà di Dio e con l’aiuto delle correnti».
Fu accuratamente designata, per svolgere il compito di balia e tata, una ragazza, Lucia. Possiedo una sua foto: era alta, mora, dai lineamenti che parevano intagliati nel legno di quercia, con la bocca dall’espressione volitiva e gli occhi di chi ha già troppo sacrificato, a soli vent’anni. Aveva appena partorito una figlia ma, essendo non maritata, aveva dovuto darla in adozione ad una coppia di suoi zii, benestanti e senza prole, che risiedevano nella zona di Firenze.
«Si ricordò della recente agonia della montata lattea che le aveva ingrossato e infiammato il seno perché non c’era più un bambino da allattare».
«La sola vista della neonata le fece risentire il movimento del feto nel ventre; le sue braccia sapevano istintivamente come tenerla in braccio, calmarla, consolarla».
Mia madre fu viziata come una principessa, protetta e reclusa come un gioiello antico, come una filigrana troppo esile e preziosa per essere indossata. Eppure, il dolore si insinua nelle crepe dei muri, se pur di pietra spessa, come edera velenosa.
Dopo cinque anni trascorsi a servizio, Lucia decise di tentare la fortuna in Germania, come cameriera. Avvisò per tempo i datori di lavoro, con il cuore in frantumi, riempiendo di baci le gote di una bambina non sua, che colmava la sua lacerazione, disperandosi al pensiero che fossero gli ultimi.
Immobile, sulla porta dello studio di suo padre, la bambina si è svegliata prima del solito, senza che nessuno le facesse il solletico sotto le coperte. Forse un presentimento. Ha sceso le scale in camicia da notte, con l’orsacchiotto di peluche logoro per i troppi abbracci. Li vede. Li sente.
«Non parto più, signor V., non ce la faccio a staccarmi dalla piccola».
«No, mi spiace. Hai detto che te ne vai, e ora devi andare. Hai compiuto la tua scelta, non puoi tornare indietro».
La bambina sentì il suono della propria voce che prorompeva in un urlo disperato, che infrangeva il silenzio ovattato che la neve soltanto sa regalare.
Ma Lucia fu allontanata lo stesso, poiché giudicata non sufficientemente affidabile.
«La bambina non mollò la presa. […] Gwen ci mise molto a calmare la nipote. La coccolò e la prese in braccio, cercando di distrarla con indovinelli e filastrocche».
Un anno dopo la sua dipartita dalla villa dei miei nonni, la ragazza fece ritorno in paese per un breve soggiorno, in visita alla propria famiglia.
È ancora una volta mattina.
È ancora una volta gennaio.
Ancora una volta mia madre indossa solo la camicia da notte ed è ai piedi delle scale. Sente la sorella di Lucia che riferisce che quest'ultima è alla stazione, appena giunta. La bambina imbocca la porta di casa, esce scalza, lasciando impronte minute sulla neve, attraversa il paese di corsa con il cuore che scoppia, per recarsi in prossimità del treno. Si riabbracciano.
La neve di gennaio racconta la storia di una donna, fin dai suoi primi vagiti.
«“Raccontami un altro mito”, disse Isabel.
Tom rifletté per un momento. “Sai che dal nome Janus trae origine la parola gennaio? Entrambi portano il nome del dio Giano, la divinità bifronte.”[…]
“Il dio di cosa?”
“Dei passaggi. Guarda sempre in due direzioni, da dove arriva e dove va, incerto fra i due punti di vista. Gennaio guarda avanti al nuovo anno e indietro a quello vecchio, vede il passato e il futuro”».
Fu immensamente amata, mia madre.
Amata da mio nonno, in modo assoluto e possessivo, da mia nonna, in modo devoto e silente, e da una giovane madre negata, Lucia.
Ci furono, dunque, tre figure femminili: una ha dato il proprio ventre; una, la sola “mamma”, la propria dedizione imperitura; una il proprio latte, le proprie coccole, le proprie mani per pettinare i capelli, per tendere una caramella, per pulire il vomito, per lenire il mal di pancia.
E ce ne fu una quarta, a distanza di 24 anni: una bambina dai riccioli castani e grandi occhi nocciola, che volle colmare ogni vuoto, e che, non potendo essere solo figlia, divenne madre non appena fu in grado di fare una carezza, di asciugare una lacrima, di esprimere, con caparbietà, un’opinione, e inventare, ogni giorno, una nuova favola per la sua mamma gravemente malata. Basta esordire con: C’era una volta… e spazio e tempo reali scompaiono. Puff!
«Al faro si può vivere qualsiasi storia che si voglia immaginare, e nessuno potrà dire che è falsa: né i gabbiani né i prismi né il vento».
Non importa se non le ho neppure conosciute, due di queste donne. Noi non abbiamo bisogno di sangue, di follicoli, di contatti di pelle e di logiche spiegazioni per creare legami. Ci uniscono fili invisibili, per sempre.
«Proprio come qualsiasi altra madre, in qualunque parte del mondo».
Emma Fenu, estratto da "Vite di Madri. Storie di ordinaria anormalità".
Citazioni tratte da: M. L. Stedman, La luce sugli oceani.