"Vite di Madri", recensione di Ilaria Biondi
Dalle pagine carezzate dall’inchiostro si librano, volteggiando come libellule su specchio d’acqua verde, silhouettes di Donne, che si stagliano, con la loro luce potente e avvolgente, su un cielo sordo e muto, che odora di lacrime.
Sfoglio, lentamente – come si conviene ad un libro che ha qualcosa di “sacrale”, per il tema che affronta e per come lo racconta – e mi addentro, con pudore, nelle pieghe delle storie, quasi timorosa di disturbare, di infrangere un’intimità inviolabile. Mi tolgo le scarpe, mi copro il capo con un velo di mussola, e mi inchino, riverente.
Chiudo gli occhi e accolgo con gratitudine le immagini che, piano piano, sembrano comporsi e incastonarsi, una dopo l’altra, su un fondo nebuloso, che grazie ad esse acquista luminosità.
Le immagino, queste guerriere che combattono la loro battaglia personale. Nella vita di ogni giorno. Lontano dai riflettori. Con umiltà. Tenacia. Coraggio. Senza presunzione. Senza rumore. Senza lamenti.
Le immagino. Come nascoste, e al contempo avvolte dolcemente, da una tenda trasparente increspata dalla segreta brezza del mattino. Il capo incorniciato dalla finestra, che dà sulle acque scomposte del mare. Sul dorso pigro di una collina sfiorata dal crepuscolo. Sul profilo dolcemente disarmonico di una città che corre affannosa verso il proprio oggi. Sul buio scosceso di un vuoto senza fine, che attrae e respinge.
Le immagino, di spalle. A celare i graffi del volto. A proteggere il proprio io. Capelli corti, taglio sbarazzino. Capelli lisci, raccolti senza troppe pretese. Capelli sciolti sulle spalle. Riccioli che sembrano raccontare, ognuno, una propria storia.
Darsi, e negarsi.
Offrire la propria storia. E lasciarsi coprire da essa, come velo che protegge e custodisce, che può essere detto solo a metà.
Tanti volti, sconosciuti. Tanti nomi, ignoti. Protetti e custoditi dal cuore sapiente e generoso di colei che queste storie ha accolto e raccolto in sé, dentro sé, come mare che attende il sinuoso e pigro incedere dei numerosi, e sempre diversi, corsi d’acqua che ad esso giungono, vogliono e devono in esso confluire.
“ Un tardo pomeriggio di fine estate, ho compiuto un atto di coraggio: mi sono tuffata da una scogliera a picco per essere seguita in acque pure a me ignote”.
Centocinquanta donne, dallo spazio “asettico” di alcuni forum, hanno risposto all’appello di Emma Fenu, scegliendo di raccontarsi a lei, ad una sconosciuta, affidando a lei i cocci delle proprie storie. Cocci di cui Emma lascia intravvedere le punte che tagliano la pelle e l’anima, ma anche la luce che su questi frammenti vetrosi si rifrange e si riflette.
Come scrive Serena Mandrici nella sua commossa, commovente e vibrante presentazione di Emma, “colei da cui Tutto era scaturito”, “lei offre un fiore, il più semplice dei gesti, il più puro, tanto da far sospettare l’inganno”.
Non siamo abituati alla generosità che si offre in tutta la sua purezza. E per istinto, sovente, ci ritraiamo diffidenti quando essa si porge a noi. Sempre Serena: “Ho diffidato di tanto amore. Io sono scettica di natura, e ho pensato: «Ma questa che vuole? Che secondo fine ha?»
Ma quando le anime si riconoscono, esse sentono di palpitare allo stesso ritmo, come se cavalcassero sui fili invisibili che attraversano gli spazi sterminati dell’universo. Dubbi e incertezze si dissolvono. Muri di pietra si sgretolano. E c’è posto solo per la comunione: “dopo una manciata di istanti ci siamo riconosciute frutto dello stesso ventre di ricordi ed emozioni”.
Garbo. Delicatezza. Rispetto. Emma si fa “piccola e si infila […] nella sua tazzina di porcellana, nascosta da profumi alla lavanda” (citando ancora le intense parole di Serena Mandrici) e lascia parlare le figlie, le donne, le madri del suo “salotto virtuale”. Creature cadute nel baratro, gettate nel baratro dalla vita, e dal baratro, risalite. Con la forza delle proprie unghie. E del proprio cuore.
Eppure noi la sentiamo, Emma. In ogni parola. In ogni virgola. E la vediamo, in ogni immagine.Che ella sa, con antica e arcana sapienza, trasformare in Bellezza. Senza cancellare né addolcire il dolore. I rimpianti. Le amarezze. I cunei che trafiggono la carne.
La carta vergata diviene marchio della sofferenza che queste donne portano impressa sul corpo e negli angoli più riposti dell’anima. Ma si fa al contempo anche testimonianza della Vita che vuole vivere e brillare, sopra e oltre le macerie, al di là del buio, dentro il pantano che imbriglia i passi e incatena lo spirito.
“Ogni storia è intensa, a tratti cruda e crudele, ma contempla una resurrezione catartica, una volta spostata la pietra che chiudeva il sepolcro del silenzio.”
Solo la Parola, forse, può elevare ciò che è stato gettato brutalmente negli abissi più neri, crudi, impietosi da una vita che sa essere molto ingrata. Parola che, con verità assoluta e trasparente, sa mutare il dolore in forza, le tenebre in scintillio di stella.
Più si vuol far piccola Emma, più si percepisce la sua Grandezza. E come paziente tessitrice, con mani abili e generose, crea un ordito complesso, dai disegni che profumano verità, sofferenza e grazia. Ella lascia che il filo del suo gomitolo si srotoli e indichi il cammino da seguire, per uscire dal labirinto. Per mille e una notte, e oltre, ella racconta le storie delle donne che in lei confidano e a lei si affidano, e le fa divenire “storia nelle storie della Storia universale”.
Attraverso la sua voce, ascoltiamo le loro voci, che si liberano potenti. Desiderose, smaniose, ansiose di dire. Di dirsi. Perché certe storie – storie vere, scavate sulla pelle, incise dentro l’anima, scolpite sulla carne che ancora ne brucia – non possono, non devono essere taciute.
“Le dinamiche della mia vita non solo mostravano punti di contatto notevoli con quelle di altre, apparentemente accomunate a me solo dal verdetto di un ginecologo, ma che ero legata, tramite fili invisibili, a donne, anch’esse figlie e madri come me, nella medesima, e peculiare, accezione”.
Partendo dalla propria storia personale, cui ella accenna con infinita delicatezza – le cicatrici incancellabili che l’endometriosi scolpisce furiosa su corpo e anima – Emma vuole e deve “dare voce ad una minoranzache non accetta più di essere negata e relegata, e […] gettare un fascio di luce su una porzione della realtà, vera e innegabile, che si presta a molteplici interpretazioni di carattere sociale e antropologico, ma che, soprattutto, coinvolge a livello puramente emotivo”.
Figlie non amate. Di madri che possono amare solo disperatamente. E disperatamente offrono solo dolore, aggrappate alle proprie crepe interiori, lavate dall’alcool e soffocate da pasticche fintamente colorate. Figlie non madri, che scontano la pena di essere nate e di non riuscire a far nascere. Figlie immolate che espiano colpe altrui troppo grandi anche solo da nominare, che sporcano le notti “di orrore e disgusto”.
“Nel mondo, madre, l’avete mandata,
foggiato il suo corpo di schiuma e corallo,
pettinato in un’onda la sua calda e densa chioma
e infine da casa l’avete scacciata.
Nel buio della notte si trascinò in città
E ad una soglia depose la bambina:
azzurra, indifesa, con la veste orlata di schiuma.
E mai una sorella, e mai un fratello
A darle ascolto o accorrere al pianto.
Il suo viso rifulgeva dalla calda e densa chioma
Come la luna nella sua famiglia d’astri.
Vendette i suoi coralli, la sua schiuma;
nel corpo le si frantumò il variopinto cuore
come armoniosa conchiglia, e strisciò verso casa.
Rassegnati, figlia mia, e ritorna nel mondo!
Figlia, torna nella terra oscura:
non c’è nulla qui, solo triste acqua marina
e una manciata di sabbia che scivola via.”
(La figlia del mare, K. Mansfield)
Madri, che sfiorano la manina della propria creatura solo per la durata, effimera, di un battito d’ali di farfalla, travolte nel ventre da rivoli di sangue che si portano via la vita e la luce, lasciando il corpo “gelido e marmoreo”, come sepolto sotto una coltre di neve “oscura e silente”. Madri, costrette a giustificare il proprio diritto ad essere madri davanti al tribunale della stupidità e della cieca cattiveria. Madri, che fagocitate dai mostri di una malattia senza volto, si sentono strappar via le viscere ed esangui e svuotate negano alla propria creatura nutrimento e cura: quale peggior condanna che il sentirsi “una reietta”, che gli altri guardano “con un misto di condanna e pietà”, dopo aver voluto quel bambino “con disperazione e tenacia”? Madri, che vittime inconsapevoli di una tetra profezia, non possono essere mamme di pancia, ma sanno diventare consapevoli e luminose mamme adottive. Madri, alle quali “non è dato concepire figli di carne”, sterili nel corpo ma feconde nell’anima, partoriscono creature immaginarie attraverso la loro Arte, di sangue e di carne. Una Madre, che grida silenziosa il nome della propria figlia, Beatrice, “colei che rende felice”. Ma un destino beffardo la strappa anzitempo al ventre che per nove mesi l’ha custodita, spaccando in mille e mille frantumi quella felicità inseguita, rincorsa, attesa, cullata. E ora non c’è spazio né tempo per una culla. C’è solo “strazio del corpo e dell’anima” e il “disperato tentativo” di sottrarla al freddo dell’oblio. Il gelido artiglio nulla può contro il ricordo, inviolabile spazio ove Beatrice è unita alla sua mamma per sempre, e a lei si aggrappa con forza.
“Quando le donne forti ti guardano non vedi solo i loro occhi.
C’è qualcosa di più. È la loro anima che scorgi, ha il colore del sole e la luce della luna. […] Le donne forti sono in grado di vestirsi di niente ma di sembrare tutto. È la loro anima che le veste, è la forza di se stesse che le circonda. Ed è proprio questa loro presenza, a volte difficile, che merita di averle conosciute”. (da Le donne forti, di Simona Oberhammer)
“[…] Oggi io cammino senza piangere più
e non m’importa, non m’importa
che l’anima non abbia nulla di suo,
nemmeno più il dolore: oggi tutta la vita
mi pulsa nel palmo d’una mano,
mi trema in cima alle dita
che serrano
teneramente
la manina della mia creatura.
Oh bimbo, bimbo mio non nato,
la tua mamma non sa che viso avrai,
ma la tua manina la sente
per ogni sua vena
leggera
come un piccolo fiore senza peso.
[…] Bambino, quando saremo giunti
alla nostra casa,
dopo tanto salire,
io ti solleverò alto da terra,
ti metterò nelle braccia
di chi è lassù ad aspettare,
gli dirò: Vedi,
vedi che cosa ti ho portato? E l’anima,
donato il suo ultimo dono,
resterà nuda e povera
come la spiga vuota.
Ma tu, tu, creatura,
nelle piccole mani porterai,
fiore della rinuncia mia,
tesoro di tutti gli umani,
una speranza di Bene.”
(Domani, A. Pozzi)
Non ho figli. Appartengo alla categoria di “color che son sospese” in un limbo senza nome. Che si portano dentro un forte ed ancestrale desiderio di essere madri, ma che non lo sono, perché la vita sembra averci portato altrove. Almeno fin qui … Confesso di avere esitato prima di leggere il libro di Emma. Perché qualcosa dentro di me mi diceva che quelle pagine non erano innocue, non sarebbero passate invano nei miei pensieri e nel mio sentire, scrutando la mia anima con occhi spalancati. Sarebbero – e lo sono state – un terremoto di emozioni. Come al muto crollar di una diga. Come pareti sconquassate dal repentino tremare della terra.
Ci sono libri che ci aspettano. Che ci chiamano, con dolce insistenza, in attesa che i nostri passi si fermino, dopo lungo peregrinare. Per guardare negli occhi domande e cercare risposte nascoste. Per affrontare quel grumo che si addensa e si stratifica, anno dopo anno, ricacciato giù, giù in fondo, fin quasi a dimenticarsi che esiste. Ma che pulsa, che batte, come piccolo cuore che osa appena farsi sentire. Piano, piano. Respiro impercettibile. Bisbiglio di farfalla. Sussurro di vento mattutino ….
Le storie di queste “eroine sopravvissute” ci ricordano che “la maternità è un arduo compito, e pronte ad assolverlo non lo si è mai”. Essa è ciò che va oltre. Qualcosa di così immenso e imperscrutabile che siamo costrette a farci i conti sempre, in ogni caso. Sia che diventiamo madri, sia che scegliamo di non esserlo, sia che desideriamo esserlo ma …
Mi sono sentita accolta, da queste pagine. Benché la mia storia, nella sua semplicità e ordinari età, sia molto diversa da quella di queste donne coraggiose e luminose. Io, figlia (e figlia di figlia) amata e coccolata. Io, figlia non divenuta madre, ma non privata del dono di poterlo diventare. Temevo forse di sentirmi quasi in colpa, di provare disagio, di sentirmi fuori luogo, diversa. Ma queste pagine mi hanno preso fra le loro braccia, come madre avvolgente.
Queste storie reali, che diventano una sola Storia, un canto corale, drammatico eppur di potente bellezza, “trasudante di vita”, mi dicono che “in verità, siamo Madri, tutte”, anelli invisibili e visibili di un Ciclo infinito che ci lega al Seno fecondo della Terra.
“Madri di idee, di progetti, di sogni. Seni turgidi di Dee che accolgono amiche, sorelle, mariti, amanti. Madri delle nostre madri e perfino di noi stesse.”
L’ineffabile Mistero che è in noi, “Donne, figlie di Eva”, e che sta oltre noi, in uno spazio e in un tempo sempre uguale e sempre diverso, inseguendo un anelito di eternità.
Grazie a tutte queste voci, di cui ignoro il timbro reale, ma che ora risuonano in me come bisbiglio antico, risvegliando vibrazioni che vengono da lontano.
Grazie a Emma, che “cerca la sirena ancorata nei fondali, quella con lo scrigno e i segreti, e ha la chiave e la voglia di scendere, ma non la cerca per avere il tesoro, la cerca per trovare, in ogni pietra preziosa, la storia che la conserva così lucente.” (Serena Mandrici)
Emma, dea lunare, sfuggente e sempre in cammino, che sembra attraversare il Tempo, giungendo da remoti spazi senza nome.
Emma, ninfa, amazzone, sacerdotessa, arpista di antiche melodie.
Emma, che con ago e filo rammenda segrete storie del mondo.
Emma, Parola che nutre e si dona come una Grande Madre.
Cara Emma, ti conosco “solo” attraverso la Parola.
Ed è grazie alla verità nuda, disarmata e disarmante della Parola che ho riconosciuto in te un’anima amica.
Se avessi una storia in me, di gioia, di dolore, o anche solo di mesta malinconia, è a te che io la affiderei.
Ilaria Biondi
tratto da